A PROPOSITO DI SANREMO, VOCI, TSUNAMI E IDENTITÀ

Illustrazione di Marianna Coppo.

 

Lasciateci condividere pochi e semplici pensieri nati all’indomani del Festival di Sanremo che con la canzone Zitti e Buoni, ha incoronato i Maneskin, gruppo che, a parer nostro, a colpi di Rock strappa alla Generazione Z gli stracci dell’apparenza e ne mostra l’identità.

Sotto i ricercati vestiti di scena, luccicanti e vistosi, traspare la loro pelle: sottile, tenera, VIVA. Nessuna divisione tra CORPO e ANIMA, solo la voglia di dilatarsi per occupare uno spazio nel mondo, sentirsi la vita addosso, nonostante possa far male con  il suo peso e le sue difficoltà.

Damiano David, Victoria De Angelis, Thomas Raggi ed Ethan Torchio sul palco di Sanremo hanno portato la loro musica, il modo con cui vogliono dar voce al mondo che hanno di dentro.

Quando cantano e suonano raccontano di ventenni che si confrontano con l’ineluttabilità della vita e dell’esigenza che ognuno ha di dare un senso all’esistenza, di quella paura diffusa “di lasciare al mondo soltanto denaro”, “di non essere nessuno” ma anche di quella necessità di sentirsi liberi di commettere errori, senza dover necessariamente dimostrare niente a nessuno, con l’unico obiettivo di diventare sé stessi.

“Scusami ma ci credo tanto
Che posso fare questo salto
E anche se la strada è in salita
Per questo ora mi sto allenando”

Cantano di sogni e desideri, della forza di lottare che serve per ottenere ciò che si vuole, dei successi, dei fallimenti, di quei passi indietro e avanti necessari da fare per conseguire i propri obiettivi, raggiungibili a patto di restare diversi dagli altri.

“E non c’è vento che fermi
La naturale potenza
Dal punto giusto di vista
Del vento senti l’ebrezza
Con ali in cera alla schiena
Ricercherò quell’altezza
Se vuoi fermarmi ritenta
Prova a tagliarmi la testa perché
Sono fuori di testa ma diverso da loro”

 

Illustrazione tratta da Il libro degli errori, di Corinna Luyken, Fatatrac.

Chapeau. Per noi erano già sul podio.

Con loro ha vinto la forza e la tenacia della Generazione Zeta che non guarda al futuro ma gli va incontro, stordita come un toro anestetizzato in un’arena di astanti urlanti, ma comunque ancora in piedi, in equilibrio, una generazione connessa dalla tecnologia, unita dal rispetto verso il pianeta e dal rifiuto per tutti i tipi di discriminazioni e diseguaglianze.

I Maneskin sembrano avere le idee chiare, una grande fiducia in se stessi ma anche la consapevolezza che il mondo va veloce e che forse l’unica vera rivoluzione è quella di cambiare pelle spesso. E a chi dice “vi prego non parlateci di Rock, riferendosi al genere musicale che il Gruppo porta avanti, rispondiamo, che seppur non lo fosse cosa importa se è l’anima a essere Rock?

Se al pari di questo, la loro musica è capace di dar forma a un sentire diffuso e si fa portavoce della trasformazione della cultura e dei costumi di una nuova generazione?

In questi giorni abbiamo ascoltato e letto con attenzione i tanti commenti e dibattiti nati sui vari social in merito ai giovani cantanti e alle loro esibizioni.

Non vogliamo di certo dar voce a un’aringa difensiva a favore di coloro che sono stati tacciati di copiare, di non essere originali, di usare artefici per apparire più che per distinguersi per la competenza di saper cantare, o ancora più brutalmente di aspirare al guadagno, come se l’artista non potesse aspirare a far della propria arte un lavoro.

Che poi sul non saper cantare, dobbiamo, pur non volendo, chiudere un occhio, perché siamo troppo abituati a vivere in un mondo dove in tanti non sanno scrivere ma danno vita a storie di cui i giovani sembrano non poter fare a meno.

Semmai ci chiediamo il perché delle cose. Le domande, vuoi o no non vuoi son sempre lì a salvarti dai fin troppo facili e affrettati giudizi.

Sono state dati a tutti le stesse possibilità di studiare? Affinare le competenze?

Da quanto i giovani non avevano la possibilità di esibirsi su un palco, di mostrarsi fisicamente davanti a una platea?

Illustrazione tratta da La porta, di Ji Hyeon Lee, di Orecchio Acerbo.

Da quanto le loro energie sono imprigionate in uno schermo e le loro idee e intuizioni svaniscono nel tempo di 24 ore in una storia su Instagram?

In quale modo e luogo hanno avuto la possibilità di esprimere e condividere quel guazzabuglio di emozioni che in questo lungo anno, più di altri, si sono mescolate come granelli di sabbia?

Quali e quante possibilità di fuga gli si sono parate davanti? Fuga da sé stessi, da quegli specchi che si sono parati ogni giorno tutti intorno a loro?

Quali possibilità di essere ascoltati, visti, amati hanno avuto?

 

Le domande sono tante, tutte valide e potrebbero rischiare di portarci lontano, troppo lontano, a parlare di economia, politica, di promesse mancate.

Ma oggi vogliamo limitarci ad approfittare di quella possibilità che ci ha offerto il Festival di Sanremo, che è quella di cogliere un’opportunità.

Non è nostra intenzione schierarci da nessuna parte della barricata, ma semplicemente farci ponte tra le più disparate narrazioni e i lettori, per cercare tra le pieghe, e offrire una possibilità di crescita.

Cogliere un’opportunità. Succede quando si oltrepassa una soglia nonostante la diffidenza per ciò che non conosciamo, quando ci apriamo al nuovo con coraggio, curiosità e un pizzico di follia.

Un po’ quello che succede con i libri che magari non ti salvano la vita ma di certo offrono delle opportunità.

Illustrazione tratta da Il muro in mezzo al libro, di Jon Agee, Il Castoro.

Lo scorso maggio Germana Paraboschi, libraia nella nostra libreria di Brescia, mi faceva notare quanto tutti noi durante la quarantena abbiamo avuto la possibilità e il tempo, più che in altri periodi, di ascoltare musica e di quanto l’ascolto di radio, Spotify, le dirette su Instagram degli artisti, ci hanno consentito di approfondire le nostre conoscenze. Ma anche di come la lunga convivenza tra generazioni diverse nella stessa casa avesse consentito uno scambio: gli adulti hanno potuto (o dovuto) ascoltare quel che piaceva ai propri figli, e viceversa. Mondi diversi si sono confrontati, e come questo potrebbe aver aperto ad una maggiore curiosità sia le generazioni dei genitori che quelle dei ragazzi.

Ecco, per tornare a Sanremo, vorremo che da questo evento nascesse la voglia di fermarci insieme ancora una volta, di ascoltare più attentamente quello che i giovani abbiano voluto comunicare con la loro performance, musica, canzone, ma anche quello che non hanno detto.

Partire dalla musica per creare connessioni, incontrarci, dialogare, per are in modo che il patto generazionale non sia solo qualcosa di costruito a tavolino. Per conoscere più da vicino i fermenti propri dell’età dello Tsunami, cogliere certi disagi propri della nostra epoca ma anche le esigenze e i bisogni di una generazione che, a parer della maggioranza, arranca a trovare idee nuove e la forma per esprimerle e condividerle.

Se vi va fermiamoci insieme a riflettere magari con un libro tra le mani come ad esempio:

L’età dello tsunami. Come sopravvivere a un figlio pre-adolescente, di Alberto Pellai e Barbara Tamborini, De Agostini, Milano, 2017.

Un libro che con un linguaggio semplice e scorrevole rischia di farsi divorare in poche ore per la capacità che gli autori hanno di raccontare la complessità del mondo interiore dei   pre-adolescenti per i consigli e suggerimenti molto pratici  che offrono agli adulti per accompagnare i figli in un percorso di mutuo aiuto.

Per i più avventurosi consigliamo invece: Te lo dico in rap, di Francesco Kento, Il Castoro, Milano, 2020.

Un vero e proprio manuale, che, mentre racconta la storia da cui proviene il rap, insegna anche a lavorare sui testi, le rime, il ritmo, l’alternanza tra strofa e ritornello, e tanti altri aspetti inaspettati.

 

Io sono zero, di Luigi Ballerini, Il Castoro, Milano, 2015.

Per aprire la porta e attraversare con Zero la soglia che porta dal mondo virtuale a quello reale, complicato dentro e fuori, ma ricco di sapori, odori, amore e ribellione.

E per tutti coloro che fanno fatica a sintonizzarsi su certi stati d’animo, propri della Generazione Z, non possiamo non consigliare di leggere o rileggere Peter Pan, per ricordarci delle aspettative che nutrivamo nel futuro e sulle speranze ad esso congiunte.

 

N.B. Pur avendo colto il tono rafforzativo e colloquiale di certe parolacce contenute nel testo  Zitti e Buoni dei Maneskin ci auguriamo con tutto il cuore che nei prossimi testi gli autori possano trovare nella lingua italiana parole altrettanto eloquenti ed efficaci per scuoterci dal torpore.

Buona domenica e continuate a sintonizzarvi sulle nostre frequenze 😉